Solo un altro passo

di Sandra Granchelli

Si era perso.

E non sapeva quando fosse iniziato.

Ad un certo punto qualcosa si era spento.

Non provava più interesse per niente, nulla lo faceva più emozionare, ridere, godere, nulla lo faceva più arrabbiare.

Era come se la tristezza avesse risucchiato nel suo grigiore tutta la sua vita interiore.

Certi giorni per andare avanti pensava solo ai suoi piedi: un passo dopo l’altro, pensava, devo solo concentrarmi sui passi, che se alzo lo sguardo e vedo – o non vedo – dove sto andando, mi fermo; un passo dietro l’altro, conta solo riuscire a fare il prossimo passo, e poi il prossimo, e poi il prossimo ancora.

Accarezzò la scatoletta della paroxetina nella sua tasca. Sapeva che pochi milligrammi al giorno lo avrebbero salvato dalla sua disperazione, almeno per un po’, ma si limitava a guardare le bianche compresse del farmaco: gli bastava  l’idea di avere ancora una via di uscita, per ora. Più che bastargli, se lo faceva bastare, aveva degli stupidi pregiudizi riguardo alle stampelle chimiche. Preferiva, per ora, affrontare la tristezza a mani nude, molto virilmente. Non sapeva se ci sarebbe riuscito. Eppure, da qualche anno, si era convinto che la coscienza, il pensiero, le emozioni, i sentimenti, tutto ciò che riteniamo ci distingua dagli altri animali rendendoci Uomini (e Donne), creature predilette da Dio – per chi a Dio ci credeva ancora – fossero davvero solo il risultato di una serie di reazioni neurochimiche quasi identiche a quelle che avvengono nel sistema nervoso dei topi, forse appena un po’ più complesse.

Serotonina, era questo che forse gli mancava – avrebbe dovuto studiare meglio per gli esami di biologia e neuroanatomia, ma ai tempi dell’università snobbava certe spiegazioni meccanicistiche dell’attività umana. Serotonina, doveva essere questo il neurotrasmettitore responsabile della sua tristezza.
Ed era rassicurante poter pensare alla propria tristezza in termini così concreti.

M. era la quarta paziente della giornata, l’ultima prima dell’ora di pranzo. Quarantacinque minuti a paziente, loro sdraiati sul lettino, lui a fianco, un po’ defilato, in modo da non poter essere visto; sessanta euro per chiacchierare con lui, con ricevuta.

M. parlava del suo amante ed era un anno che non faceva altro che parlare del suo amante.

– Non avrei dovuto chiamarlo, vero?

Non lo so se avresti dovuto chiamarlo, avrebbe voluto dirle, e non me ne frega niente a dire il vero.

Da una vita tentava di capire se stesso e gli altri e siccome da solo non ci era riuscito, si era affidato alla psicologia e per un po’ ci aveva creduto nella possibilità di comprendere, e di guarire.

Ora non più.

Vattene M., vattene via e non ti affidare più a me che non so dove portarti, che non so dove andare, che non so aiutare neanche me stesso, che non so se avresti dovuto chiamare o no il tuo amante e neanche me ne importa e non posso fare più niente per te! Questo avrebbe dovuto dirle.

Poi guardò i suoi piedi. Un passo dopo l’altro, pensò, devo fare solo un altro passo, pensa solo al prossimo passo.

Si ricordò di quel computer, di cui non sapeva più il nome, che era stato programmato per assemblare frasi ripentendo pezzi di conversazione appena “ascoltati” e la gente che parlava con lui si sentiva ascoltata e compresa anche se sapeva di aver parlato solo con una macchina e la macchina sembrava pensasse e ascoltasse e comprendesse, anche se era solo una macchina sorda e cieca e fredda .

– Non avrebbe dovuto chiamarlo? E’ questo che crede?

Disse.

M., forse, si sentì compresa. Continuò a parlare del suo amante.

Lui continuò a giocare con la scatoletta della paroxetina nella sua tasca.

Ed a concentrarsi sui suoi piedi.  

INVIDIA e….il proprio senso di inadeguatezza.

di Francesca Belgiovine

«l’invidia è tristezza per il bene d’altri in quanto ostacolo alla propria superiorità»,

Tommaso D’Aquino

Il tema dell’invidia ci conduce ad esplorare luoghi oscuri, mortiferi e pieni di insidie.

Al centro della scena l’invidia può assumere diverse sfumature; i colori appena accennati possono cedere il passo a colori più accesi ed in questo caso diviene dilaniante, ossessiva, turpe, foriera di progetti crudeli o addirittura omicidi.

Dei sette vizi capitali l’invidia è tra quelli che hanno stimolato maggiormente la fantasia dei letterati e, forse, la più emblematica figura di invidioso l’ha disegnata Shakespeare con il suo Iago: dalla furiosa e tragica invidia di questi avranno origine, a cascata, molti altri delitti, primo tra tutti l’ira omicida di Otello e il suo stesso suicidio.

L’invidia viene definita da colui che la vive: “una brutta bestia…… che ti corrode dentro….non riesci ad apprezzare quello che hai e vedi nell’altro sempre qualcosa di migliore……..non si riesce ad essere oggettivi ….in quel momento l’altro possiede tutto ciò che ardentemente desideri. L’invidia nella sua estremizzazione negativa ti porta a negare gli affetti, non riconosci né parenti né amici e finisce per assalirti, confonderti e possederti”.

Ora, trattandosi di un sentimento che investe l’animo umano è interessante tracciarne un profilo psicologico nonché seguire i processi  psichici che ne sono alla base.

Inevitabile, in questo caso, è inserirla nell’accadere psichico e quindi rendere pensabile quella particolare forma di dolore mentale che si sperimenta ogni qual volta si percepiscono delle differenze con proprio svantaggio.

Nella mente del soggetto invidioso, che desidera ardentemente tutto ciò che non possiede, dilaga una forte emozione negativa da cui conseguono sentimenti di ostilità e rancore tanto da spingerlo a mettere in moto risposte adattative, che se non necessariamente psicopatologiche, sono tali da assicurare un placebo a quel malessere profondo.

Il circolo vizioso è così innescato, l’invidia tesse e scava nella mente del soggetto tanto da riuscire, nel peggiore dei casi, a strutturare  delle vere ossessioni orientando tutta la realtà psichica in funzione della sua elusione. Tuttavia si tratta di una strategia fallimentare in quanto paradossalmente l’invidia in questo modo ne potrà uscire solo rafforzata.

Viene da sé dedurre come questo sentimento sia legato a vissuti distruttivi capaci di disgregare il soggetto a livello profondo tanto da recare un danno vistoso a sé stesso ed anche alle persone a lui intorno poiché egli si rende incapace di amare genuinamente.

In ambito psicoanalitico l’invidia è stata considerata da S. Freud e M. Klein in contesti differenti.

Per S. Freud. (1932) l’invidia, non ha un ruolo autonomo ma acquista importanza in quanto complesso ideoaffettivo legato all’invidia del pene. Per Freud la bambina cade in balia dell’invidia nel momento in cui si rende consapevole della propria evirazione; tutto ciò provoca nella bambina la messa in moto di un desiderio ossia quello di possedere qualcosa di simile.

Nel pensiero freudiano l’invidia nasconde il desiderio di possedere qualcosa che compensi la carenza che la bambina avverte allorché scopre di avere un genitale diverso. Tuttavia, gli assegna un ruolo evolutivo importante, nello sviluppo della psiche femminile, in quanto l’invidia aiuterà la bambina non solo a distogliere lo sguardo dall’attaccamento materno ma farà in modo che la stessa volga il suo amore verso il padre traghettandola nel complesso edipico.

Per  Freud l’invidia quindi nasconde, in realtà, un atavico complesso d’inferiorità tutto al femminile.

Le critiche che sono state fatte a questa tesi freudiana hanno portato M. Klein ed altri studiosi ad avanzare altre teorie.

M. Klein (1957) scrive dell’invidia come di uno stato pulsionale distruttivo che nasconde un istinto… di morte. Se l’invidia non è eccessiva, può essere integrata nell’Io e superata da sentimenti di gratitudine ma quando l’invidia è eccessiva l’invidia diviene  pressoché un sinonimo di distruttività.

Accade che il processo di  scissione  tra un oggetto buono ed un oggetto persecutorio non riesce a conservare le sue caratteristiche evolutive in quanto è proprio l’oggetto buono che viene attaccato e guastato. Ciò significa che ci sarà una difficoltà se non addirittura una impossibilità a trovare un oggetto ideale con cui identificarsi riducendo sempre più la speranza di trovare in qualche luogo un amore ed un aiuto. Inoltre non va trascurato il fatto che la distruzione dell’oggetto è fonte di persecuzione senza fine e più tardi di sensi di colpa.

L’invidia quindi impedisce una buona introiezione; è alla base delle relazioni terapeutiche negative ed avvia a forme patologiche. L’importanza analitica di questo costrutto ci aiuta ad avviarci verso una riflessione.

Ciò significa che l’ipotesi diagnostica si orienta verso un funzionamento mentale che se non puramente psicotico tende quanto meno ad uno stato borderline; ponendoci ipoteticamente di fronte ad un soggetto portatore di questo disagio è bene che il clinico sia accorto e consapevole delle atmosfere esplosive che la relazione ed il processo terapeutico può far scattare rischiando una rottura definitiva. Tuttavia, è difficile stabilirlo a priori poiché è solo all’interno di quella specifica interazione che si può capire cosa l’invidia nasconde e cerca di ostacolare. Porsi obiettivi verosimili può essere produttivo perché probabilmente mostrarsi umili con sé stessi e con le proprie possibilità può aiutare il soggetto ad interiorizzare un modo alternativo di porsi di fronte alle esigenze interne.

Infatti l’istinto di morte non è necessariamente un ospite indesiderato: a piccole dosi diventa un personaggio interessante, ci costringe a prendere atto dei limiti e magari a superarli.

Ma quando l’invidia è eccessiva ad essere attaccata non è solo la relazione intrapsichica ma soprattutto la relazione con l’altro da sé.

Questo si verifica perché il funzionamento mentale del soggetto invidioso è scisso e disorganizzato; riesce a relazionarsi con oggetti parziali ed ambivalenti da cui l’Io non riesce che a ricavare frustrazione.

L’invidia quindi spinge la mente del soggetto in una posizione al limite della psicosi; si potrebbe definire come un vizio mentale che nasconde una fragilità. La psiche, non avendo una struttura sufficientemente attrezzata, non riesce a reggere il dolore che scaturisce dal riconoscersi separato, fuori dalla perfezione narcisistica.  L’invidia in eccesso ci dice che l’identità del soggetto non è arrivata a strutturare un senso di sé integrato e avente una forma ben definita ma al contrario c’è una mancata accettazione del sé che porta inesorabile a voler essere e possedere tutto. Ciò che in fondo l’invidioso desidera è disfarsi del limite di ciò che si è ed anche di ciò che si possiede.

E’ interessante notare come l’invidioso tenta disperatamente di occultare il proprio senso di inadeguatezza e quindi risolvere il suo dramma manipolando e alterando la realtà esterna; inconsapevole che il male maggiore si nasconde nella profondità della sua psiche.

Contrariamente, se e quando è possibile poter innescare un processo che tende all’individuazione, che significa integrazione dei vari frammenti egoici e poter riconoscere volta per volta in ogni esperienza concreta di vita il dolore mentale che ne deriva in modo da poterlo gestire nelle sue funzioni e nel suo divenire, allora l’invidia troverà meno terreno fertile per affondare le sue radici. In questo caso non solo l’esperienza di potersi riconoscere portatori di una identità definita e distinta è meno dolorosa ma essa diviene la potenzialità che spinge il soggetto a tendere verso l’utilizzo delle proprie risorse.

BIBLIOGRAFIA

ALBERONI F. (1991), Gli invidiosi, Milano: Garzanti.

FREUD S. (1932), Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) in Opere, Boringhieri, Torino 1979, vol.XI.

HAUTMANN G. e VERGINE A. (1991), Gli affetti nella psicoanalisi, Roma: Borla.

KLEIN M. (1957), Invidia e gratitudine, Firenze: Martinelli,1969.

La voce del silenzio

di Adele Lonigro

Mi chiedo come mai a volte si avverta il bisogno di dispensare futili parole, di riempire tutto ciò che ci circonda e di capire tutto quello che accade.

Forse non tolleriamo il silenzio e quello che potrebbe nascere da questo corpo informe?

Il silenzio ci circonda, il silenzio è necessario…è la base di ogni comunicazione.

“Il silenzio precede la parola come la vita dalla morte” (Reik, 1927).

Dar vita al silenzio concede l’alternarsi di voci, concede uno spazio all’altro, spesso negato dalla nostra tendenza a saturare tutto con il nostro essere ingombranti, con il nostro fagocitare l’altro: incapaci di ascoltare non solo l’altro ma noi stessi.

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Il silenzio, invece, deve accompagnare l’ascolto per avviare un processo di conoscenza: occorre un tempo e uno spazio per creare un legame.

Spesso le parole saturano lo spazio mentale e lo spazio comunicativo.

Per esorcizzare questo tradimento bisogna darsi un tempo, un tempo altro, che permetta la realizzazione di ciò che non ha avuto luogo… il tempo del non detto: il non parlante.

“In silenzio ho scritto queste parole, un silenzio che mi permetteva di percorrere strade a me sconosciute, i labirinti della mia mente, non facendomene dominare, perdermi…… ma ascoltando gli echi della mia silenziosa anima mi sono lasciata trasportare dal mio sentire. A volte mi sei amico come oggi, altre mi impedisci di respirare… ma sempre mi affascini con le tue mille forme.” Adele Lonigro

Il silenzio è voce, un coro di voci, difficile da conoscere, da riconoscere e da tradurre.

Ogni analista sa che il silenzio è tutt’altro che silente.

In analisi il silenzio dei pazienti, come il nostro, è in bilico tra il desiderio di prendere corpo e la tendenza ad affogare in se stesso.

Il silenzio dell’analista

Il silenzio dell’analista configura la capacità negativa dell’atto analitico.

Lacan designa il posto occupato dall’analista come quello del morto, che acquista la sua consistenza dal far sorgere da altri posti, testimoniando l’esistenza di un altro luogo dove regna il silenzio: l’inconscio.

Silenziosamente l’analista mostra il luogo silente della psiche e allo stesso tempo lo convoca alla sua presenza.

Il silenzio dell’analista e la sua capacità negativa, così come suggerito da Bion, di restare in attesa, in assenza di memoria e desiderio, offre l’opportunità di far nascere nuovi significanti, senza mai immobilizzare alcun significato.

Il non sapere che il silenzio dell’analista a volte nasconde, si aggancia e fa posto alla verità dell’altro.

Se l’analista smette di muoversi nel proprio silenzio, difficilmente riuscirà a comprendere ciò che accade nell’altro.

Quando il silenzio perde il suo valore analitico, diventa un deposito, segno di un contenitore stracolmo, che impedisce al pensiero di nascere. In questo modo, l’analista a sua insaputa, si rende complice nell’aver occultato un cadavere, impedendone la ri-nascita.

Il silenzio del paziente

“Leggi col pensiero il mio silenzio,

 e a bassa voce,

 benché onde di parole ci sovrastino sempre…

 Disorientate dal mio rapido buongiorno…

 È arrivato il tempo

 di raccogliere pensieri

 allegri, tristi, dolci, amari.

 Ce ne sono tanti…

 Pochi sanno ascoltare anche il silenzio,

 sanno aspettare, capire, le silenti profondità che abitano in ognuno di noi”.

 Valentina Vallario

Il silenzio del paziente è sempre una comunicazione che di volta in volta va decifrata.

Sta alla capacità dell’analista di abitare i suoi silenzi, la possibilità di darne un senso.

L’analista deve essere in grado di ascoltare con il terzo orecchio: con il proprio mondo interno, con la propria dimensione estesica, per avere la possibilità di mettersi in ascolto della sensorialità del paziente, che un silenzio corporeo rivela.

La psicoanalisi inizialmente ha considerato il silenzio solo come una resistenza e un rifiuto della regola delle libere associazioni. Oggi sappiamo che un silenzio può nascondere diversi significati.

Può sì rappresentare una resistenza in cui il paziente fa il vuoto nella mente per impedire a qualcosa di emergere alla coscienza ma può rappresentare altro.

“Avvolta tra le braccia di Morfeo che mi stringe forte a sé, sprofondo…

Finalmente sento la mia mente che si libera, fino a svuotarsi completamente…

Mi sembra di  percorrere il mare su di una zattera di frasche,

molto lentamente…

Un brivido di infinito sfiora i miei sensi… 

Resto con me stessa: io ed il mio silenzio…

riecheggia tra le mura qualche ricordo, che mi bombarda gli occhi…

E poi di nuovo il buio!

Tutto gira veloce intorno a me…

ora non sento più nulla…

Mi imbatto contro un vortice, ma sono così debole, troppo debole…che non resisto…

È troppo tardi ormai… Il silenzio dell’ebbrezza mi ha rapita! ”

Spesso sottende una difesa nei confronti dell’analista, quando il paziente in preda all’odio e alla rabbia ha paura di distruggere l’oggetto buono, e perciò si impedisce di parlare.

Ancora il silenzio può sottacere la paura di perdere qualcosa attraverso la parola.

Ferenczi, ad esempio, interpretava il rifiuto di parlare come la manifestazione di un desiderio erotico-anale. Il paziente taceva quando avvertiva la necessità di dover custodire gelosamente un tesoro, che analogamente agli escrementi, doveva essere trattenuto.

Ma il silenzio è anche l’effetto di una parola in attesa, un momento di riflessione, di regressione, di contatto con se stessi e di simbolizzazione.

In questo caso il silenzio non è il luogo contrapposto alla parola, ma il luogo dove essa germina.

È nel silenzio che si recuperano le esperienze arcaiche, in un fuori tempo dove qualcosa non ha avuto luogo psichico, perché non vi era una mente, e soprattutto non c’era un linguaggio per dire di quell’esperienza che resta nel corpo, nella memoria sensoriale.

È necessario allora distinguere, come ha fatto Lacan parlando di rimozione e forclusione, il silenzio del tacere, in cui si tenta di tenere lontano qualcosa che già esiste, dal silenzio del sileo, in cui si attende l’emergere di qualcosa che non è mai accaduto, che non ha avuto la possibilità di avere luogo, e di cui ora se ne può fare un’esperienza.

BIBLIOGRAFIA

BION W.R. (1970), Attenzione e interpretazione. Armando, Roma, 2002.

FERENCZI S. (1958), Diario clinico. Raffaello cortina, Milano 2004.

FREUD A. (1961).  L’io e i meccanismi di difesa. G. Martinelli & C. s.a.s., Firenze, 1997.

NASIO J.- D. (1987), Il silenzio in psicoanalisi. Edizioni Magi, Roma, 2005.

PONTALIS J.B. (1997), Questo tempo che non passa. Borla, Roma 1999.

RESNIK S. (1990),  Spazio mentale. Sette lezioni alla Sorbona. Boringhieri, Torino, 2003.

RESNIK S. (1972) Persona e psicosi. Il linguaggio del corpo. Einaudi, Torino, 2001.

Fight Club

“Noi siamo i figli di mezzo della storia, cresciuti dalla televisione a credere che un giorno saremo milionari e divi del cinema e rockstar, ma non andrà così. E stiamo or ora cominciando a capire questo fatto”. Tyler Durden.

Il lettore che ha già visto il bellissimo film, per la regia di David Fincher, può intuire facilmente perché scrivo una recensione del romanzo di Palahniuk per una rivista che parla di psicologia. In questo caso è sicuramente più gradevole, e agevole, vedere l’opera cinematografica che leggere il libro contrariamente a quanto si è soliti sperimentare. A parte il soggetto però, film e libro non hanno molto in comune, a partire dalla sequenza temporale degli avvenimenti fino a differenze importanti di trama. Quello che però condividono totalmente è l’ambiente, il contesto in sui si svolge tutta la vicenda dei protagonisti. L’America, quella urbana, metropolitana, consumistica, nichilista, assolutamente priva di scopo se non nel valorizzare ed inseguire il possesso di oggetti e appunto di beni di consumo. “Alla fine sono loro che possiedono te” dice il protagonista durante il film. Nel libro invece questo concetto si manifesta implicitamente, attraverso il racconto di una vita routinaria e frenetica dedita ad un lavoro che non dà senso ma che aliena da tutto, attuando una nemesi marxista nel paese del “sogno”. Il lavoro come mezzo per arrivare a consumare, il consumo come scopo di vita, la vita consumata di corsa per guadagnare qualcosa che permetta di comprare, consumare e quindi vivere. Nient’altro. Non di semplice lettura, con una scrittura ripetitiva, cupa, violenta, fatta di slang e slogan pubblicitari. A tratti ipnotica, come ipnotica è la personalità di Tyler che riesce a unire intorno a sé tutta la quinta casta del mondo occidentale, tutti i reietti dell’urbanizzazione e del consumismo. C’è azione senza esserci racconto, c’è affetto pur essendoci solo sesso brutale. C’è dolore, paura, rabbia, emozioni presenti senza mai essere nominate. L’autore riesce ad essere profondo rimanendo sempre in superfice. I personaggi sono degli “evitanti” che darebbero la vita per l’altro, per il loro compagno, camerata o amico antropomorfo. C’è cameratismo ma non “leccaculismo” vicendevole. Il linguaggio è rude, violento, minimalista, fastidioso ed essenziale. Un clima perennemente noir, dove ossimorica insonnia ipnotica la fa da padrone e non permette di distinguere la veglia dal sonno; ci si ritrova in uno stato di coscienza sfumato, senza confini e soluzione di continuità. Da questa condizione emerge, paradossalmente viva, la malattia unico fugace motivo di scambio di umanità. Ci si incontra solo da malati e tra malati, ci si abbraccia, ci si tocca, si condivide, si piange solo se si ha un male che con ogni probabilità accorcerà la nostra agonia terrena. Si è costretti a fingersi malati per incontrare un altro essere umano: l’apoteosi della nevrosi. Questo fino a quando non incontriamo il nostro alter ego, qualcuno che ci apre gli occhi, che ci fa vedere ciò che nascondiamo a noi stessi, che agisce così come noi vorremo agire se fossimo come lui e se avessimo il suo coraggio. Il coraggio di combattere; non in senso metaforico, o almeno non solo. Combattere non per una causa giusta o per fare la rivoluzione ma semplicemente per il piacere di farlo, per sentirsi vivi. Non per raggiungere chissà quale ideale, raggiunto il quale ci ritroveremmo nella stessa situazione di prima, a cercare di raggiungerne un altro, e un altro ancora, come una specie di Sisifo che reifica tutto e tratta come oggetto qualsiasi scopo umano, anche la felicità. Già, vi si scorge la reificazione di qualsiasi relazione, tutto diventa roba da consumare, con un processo di divinizzazione al contrario, in cui un naturale afflato diventa oggetto da acquistare. C’è la classica inversione mezzi fini, non come sofisma logico ma come distorsione esistenziale. Ad un certo punto del romanzo, ti viene voglia di uscire di casa e prendere a pugni il tuo vicino di casa che ha il cane che ulula ad ogni passaggio di sirena. Ecco, mi sono lasciato trascinare anch’io! Sarà il fascino di Tyler?

Dialoghi nella stanza d’analisi

Claudio Merini, Dialoghi nella stanza d’analisi. Collana “Punti di vista”, Edizioni Psiconline.

Il testo è composto da una serie di brevi racconti per buona parte dialogici, un’invenzione letteraria che segue il criterio della verosimiglianza: in ogni racconto proprio questi dialoghi costruiscono la relazione fra uno psicoterapeuta, sempre il medesimo, e un suo paziente, ogni volta diverso, che gli narra la propria dolorosa differenza. Il lettore è con loro: osservatore introdotto nella stanza di analisi, si interroga sul senso di questa relazione, in particolare sulla funzione dell’analista. Man mano che scorre le pagine, il lettore prende coscienza della complessità di una risposta compiuta. L’esperienza analitica via via gli si configura come opera  aperta.

Ciascuno dei racconti conferma questa complessità: da un lato il punto di vista del paziente, qui riconosciuto come interlocutore analitico, espressione di urgenze dolorose scavate nella propria storia (pertanto predisposta alla narrazione più che al saggio); dall’altro, il punto di vista dell’analista che rivive/elabora quelle urgenze attraverso il filtro non solo delle proprie teorie ma anche della sua stessa vita interiore. C’è di più: nel microcosmo della stanza di analisi il discorso del paziente/interlocutore si intreccia con un dialogo a due voci che animatamente si rincorrono, spesso si scontrano, all’interno dello stesso soggetto: quella  in terza persona del dottore/narratore, tutto compreso  nel ruolo di osservatore esperto e imperturbabile, preposto allo scioglimento dei nodi dell’anima, e quella dell’analista/personaggio che si esprime in prima persona, intensamente compenetrato nei sensi delle parole che ascolta, attraversato di rimbalzo da memorie, associazioni, emozioni attinte al bagaglio della propria esperienza. Una dissociazione pirandelliana, come ci racconta lo straniamento del dottor D., impalato sull’ingresso di casa, davanti alla targa con scritto il suo nome, preceduto da ‘dott.’ (cfr. p. 183). Da qui il controcanto di dubbi e obiezioni dell’analista intorno agli schemi interpretativi che il suo alter ego tenta via via di applicare, un controcanto che porta spesso accenti di insofferenza impertinente. Dunque la relazione analitica risulta polifonica e dissonante: il personaggio analista tende a rompere la fissità di qualunque schema teorico, diventa una figura di spostamento mentre indaga l’esperienza del paziente/interlocutore ponendola in rapporto con la propria. Si tratta di una ricerca complessa che richiede una pluralità di strumenti di indagine, anche aldilà delle competenze strettamente professionali (per esempio il teatro, la musica, la letteratura). Così il campo di ricerca e i punti di vista si amplificano, intervengono nuovi materiali di indagine; la stessa stanza d’analisi si apre: i confini spaziali, così come quelli temporali, dilatandosi disegnano nuove imprevedibili geometrie, nonostante l’evidenza persistente dell’interno accogliente e del giardino rigoglioso di sfondo, nonostante la scansione inesorabile dei tre quarti d’ora canonici, non a caso richiamati più volte nel corso dei racconti.

Certo il paziente/interlocutore resta escluso dal confronto serrato che coinvolge i due alle sue spalle: effetti gliene tornano di riflesso solo quando un qualche punto di precario equilibrio, una qualche parziale mediazione riesce a mettere d’accordo il dottore con l’analista. I silenzi, invece, lo coinvolgono: i silenzi sono inclusivi, segno della consapevolezza di domande in sospensione, consapevolezza che accomuna paziente/interlocutore, analista e dottore: pur seguendo tragitti e ritmi diversi, essi vagano insieme cercando la difficile messa a fuoco dell’oggetto comune; pur entro confini dilatati e poco definiti, ancora una volta la stanza permane e li tiene insieme, luogo fisico di questa condivisione. E sono silenzi densi di attesa e fertili, capaci di generare una vicinanza speciale, proficua per lo sviluppo della relazione analitica.

Questa visione aperta e complessa della psicoterapia si rispecchia nella scrittura dei racconti che risulta appunto plurale: dal registro formale del dottore/narratore in terza persona a quello informale dell’analista/personaggio. Colpisce soprattutto la tensione lirica, fino alla solennità, che spesso attraversa il discorso dei pazienti/interlocutori: una sintassi semplice, un linguaggio chiaro e senza orpelli, scavato e prosciugato dal dolore che lo ispira, costante dominante di tutti i racconti, pur nella differenza dei contenuti.

Proprio questa considerazione estetica, sulla forma che si eleva nel tentativo di aderire al dolore che la sostanzia, ci rimanda a quello che forse è il fondamento di questo testo: riconoscere, indicare, tenere aperto come un rovello scevro da becere semplificazioni, il problema del dolore umano, rendere senza tradimenti la sua natura profonda e labirintica. Il dolore torna allora come esperienza di verità: ma la verità implica bellezza. Impone una ricerca formale senza risparmio e forse per questo apre alla letteratura. Il contrario potrebbe anche risultare una diminuzione o una menzogna. Così declinato, il legame verità/bellezza – non a caso tema centrale della citazione introduttiva di E. Dickinson – diventa urgenza morale.

Luigia Amoroso

“Siate la valanga che sale!”

di Valentina Pieramico

Sono nella piazza principale della città, un grande rettangolo austero. Cammino fiancheggiata da tigli e platani che gettano la loro ombra sulle panchine. Di fronte a me, le 360 paia di scarpe da donna, tutte diverse, di tutti i tipi e di tutti i colori, rimango senza fiato. “Nome, cognome, età e data di morte”. Un colpo al cuore, come a quello di Antonia “bucato con qualcosa di molto sottile” (Iacona, 2017, p. 177) e silenziato per sempre. Il senso d’impotenza, d’inadeguatezza, di delusione è devastante. Un dolore estremo, il mio dolore profondo. Cerco un senso a questo “crimine planetario” (Barducci et al., 2018), tento di organizzare un pensiero attorno alla più diffusa violazione dei diritti umani, ma ho bisogno di tempo; il mare che vedo in lontananza forse mi riporterà alla poesia delle piccole cose, che sembra, ora, l’unica speranza a elaborazione di questo nostro dramma. È così che, in quei caldi riflessi color smeraldo, provo a interrogarmi di nuovo sul significato più profondo di questi eventi violenti, difficili da decifrare. Chiederci come mai succede tutto questo è un impegno umano nei confronti sia di chi non ce l’ha fatta, sia di chi come “Maria, Rosaria…”, ma anche “Francesco”, “Antonio” (Pezzuoli et al., 2013) ci sta provando; guardandomi dentro, con onestà, un impegno in realtà verso ognuno di noi.

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L’isola che non c’è

di Alessandra Mosca

Ha quindici anni. Chiede aiuto.

Ha sempre chiesto aiuto. Fin da quando è nata, Alice chiede aiuto piangendo incessantemente giorno e notte appena tornata dall’ospedale, piange disperata perché il latte non sembra bastarle mai. Alice cresce e già all’asilo tutti si lamentano perché “fa un sacco di capricci!”, “faccia qualcosa, Alice è ingestibile!” si sente dire continuamente la madre.

Il papà di Alice non dà peso a quello che accade, a quello che non sembra vedere, a ciò che gli viene detto dalle maestre anche alle elementari “sua figlia si isola, non ha amici, è sempre sola, sua figlia è strana”. Alice cresce, il passaggio alle medie è complicato, prende sempre più peso, ingrassa e raggiunge l’obesità. Si chiude in camera, esce solo per andare a scuola. Si sente sola e trova compagnia in qualche gioco online con cui comunica con ragazzi della sua età provenienti da ogni paese del mondo. Comincia a scambiare con loro qualche pensiero che vada oltre al gioco e capisce che qualcosa non va. Sono tutti tristi, sono tutti soli, lontani… ognuno cerca conforto nell’altro e lei si sente incapace di aiutarli, vorrebbe essere la Wendy dell’Isola che non c’è, che si prende cura dei bimbi sperduti. Una notte, tra le mura della sua stanza che la schiacciano in un tempo che sembra fermarsi ma tra le quali l’angoscia dilaga senza sosta, si accorge che anche lei è una dei bimbi sperduti. Chiede aiuto. Questa volta, per la prima volta, trova le parole per farlo. Va dal padre e gli dice “ho bisogno di un nutrizionista e di uno psicologo” ma anche in questa occasione la richiesta di Alice non viene raccolta. Il padre pensa sia un momento, una fase, passerà…

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Crimini d’obbedienza

di Silvia Di Battista

“Tra le tattiche utilizzate dagli americani durante la guerra del Vietnam vi era quella di prendere di sorpresa soldati nemici nascosti nei villaggi (…). Nel marzo 1968, una di queste azioni che doveva distruggere un battaglione di Vietcong si risolse invece in un massacro della popolazione civile, gli abitanti del villaggio di My Lai. (…) I soldati americani, guidati dal tenente Calley, massacrarono oltre cinquecento persone, commettendo ogni sorta di atrocità, trucidando spietatamente i bambini sotto gli occhi delle madri, violentando le donne. Questo terribile episodio, contrario a ogni regola del codice militare, costituì senza dubbio una delle pagine più nere di quella terribile guerra. Il tenente Calley fu in seguito condannato dal Tribunale militare (…). La difesa del tenente si fondò sulla sua obbedienza a ordini superiori (corsivo mio). Egli sostenne che per un soldato qualsiasi ordine era da considerarsi lecito e che il compito di un soldato consisteva proprio nell’eseguire al meglio qualsiasi ordine gli venisse dato (…). La corte marziale non accettò la difesa di Calley (…) “l’obbedienza di un soldato non è l’obbedienza di un automa. Un soldato è un essere in grado di ragionare e di rispondere, non una macchina ma una persona” [cit. in Kelman e Hsamilton, 1989]; [Mucchi Faina, 1996, pp. 42-43].

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Non è raro leggere tra le pagine della storia o dell’attualità le conseguenze sconcertanti e drammatiche dell’influenza proveniente da un’autorità. Crimini dovuti non alla trasgressione, ma all’obbedienza ad una legge! È vero che l’obbedienza è un requisito indispensabile all’interno di ogni contesto sociale e organizzativo per chiunque non abbia deciso di vivere un’esistenza alla Robinson Crusoe. L’educazione all’obbedienza ha inizio praticamente dalla nascita con i genitori, gli insegnanti e le istituzioni giuridiche, militari e politiche, che concordano nel comunicare e nel ricordare all’individuo l’obbedienza all’autorità legittima. Ma è anche vero che alcune leggi e autorità, in particolari condizioni, hanno portato a compiere azioni illecite, cancellando ogni capacità di discernimento. Penso in particolare alle guerre, precedute sempre da periodi di disagi economici e sociali, minacce all’incolumità, messaggi propagandistici…fino a che quell’autorità (spesso invisibile), che ci guida ad azionare bombe e farci ammazzare, sembra più legittima che mai. Credo sia per questo che nel compiere quegli atti delittuosi non sentiamo alcun peso di responsabilità personale. Anzi, diventiamo improvvisamente eroi per il nostro gruppo e poco importa se siamo assassini per l’altro. E’ come se la responsabilità delle proprie azioni e del proprio libero volere sia tutto nelle mani di quella superiore autorità che sa cosa è meglio per noi e alla quale è sottratta ogni possibilità di errore. “(…) l’uomo che sta facendo funzionare una camera a gas può giustificare il suo comportamento con il fatto che sta eseguendo ordini superiori. L’atto umano intero viene frammentato: nessuno decide di compiere l’atto malvagio, né deve confrontarsi con le sue conseguenze: la persona che assume piena responsabilità dell’atto è evaporata” [Milgram, 1976, pp. 183-184].

A molti saranno venute in mente le immagini della Seconda Guerra. Rileggendo Levi [1958] e la sua descrizione cruda e potente della detenzione ad Auschwitz, mi rendo conto di cosa avesse potuto mettere in piedi un’autorità. Un’autorità ormai invisibile nel campo, un organismo infernale, in cui tutti erano schiavi: prigionieri e carcerieri. Essi avevano perso ogni traccia di identità umana, guidati in un gioco che non risparmiava nessuno, “uomini e uomini, schiavi e padroni, i padroni schiavi essi stessi” [ibidem]. E’ un fenomeno che chiamano deumanizzazione e il termine rende bene il senso potente che Levi [ibidem] vuole lanciare nel suo testo: “i personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità è sepolta, essi stessi l’hanno sepolta, sotto l’offesa subita o inflitta” [ibidem].

Guardati a distanza questi fatti assumono tutta la coloritura di un’atrocità. Ma mi spaventa l’idea che probabilmente, vivere in particolari condizioni di pressione sociale e psicologica, possa portare ancora intere masse di persone ad agire agli ordini di una superiore autorità, senza rendersi conto realmente di ciò che si sta compiendo. Anche quando le conseguenze dell’obbedienza non sono così nefaste come nel caso di una guerra. Mi rifiuto di pensare che tali azioni od omissioni siano dovute ad un lato nascosto ed aggressivo nell’uomo: non avremmo altra scelta, per la convivenza e l’evitamento delle violenze, che l’obbedienza passiva. (Qualcuno penserà che ho una tendenziale ed eccessiva fiducia nella natura umana. E’ probabile!). Credo sia difficile tutt’oggi distinguere tra bene e male, tra diritti e doveri dettati dai diversi giochi di potere e che l’autorità continui, all’epoca della comunicazione globale, ad esercitare uno straordinario impatto, che può condurre i singoli ad andare contro i propri principi. Tuttavia non voglio generalizzare neanche in questo senso, perché i singoli pensieri continuano ad essere possibile fonte di rinnovamento, contro quelle leggi e quei doveri che sono nati (o diventati nel tempo) contrari ai diritti naturali di ogni essere umano. La difficoltà sta proprio nel capire quando quella autorità non è (o a smesso di essere) giusta e funzionale. Mi rendo conto di non avere soluzione facile per questo!

La funzione primaria della legge è di comprimere non di liberare, di restringere, non di allargare gli spazi di libertà, di raddrizzare l’albero storto, non di lasciarlo crescere selvaggiamente. Con una metafora usuale si può dire che diritto e dovere sono come il retto e il verso di una medaglia. Ma qual è il retto, quale il verso? Dipende dalla posizione da cui guardiamo la medaglia” [Bobbio, 1990, pp. 54-55].

BIBLIOGRAFIA:

Bobbio, N. (1990), L’età dei diritti, Torino, Giulio Enauidi editore SpA.

Levi, P. (1958), Se questo è un uomo, Torino, Giulio Enaudi editore SpA.

Milgram, S. (1976), Obedience to criminal orders: The compulsion to do evil, in Contemporary social psychology: Representative readings, a cura di T. Blass, Itasca, IL, F.E. Peacock.

Mucchi Faina, A. (1996), L’influenza sociale, Bologna, Il Mulino.

Sogno o son desto?

di Giustino Galliani.

“Mi trovavo in una tipografia illuminata da una luce bianca ed intensa”. Osservo la bianca con la volta del soffitto. La linea comincia ad ondulare, come se fosse un serpente, un’onda, scintillante con i riflessi della bianca luce.

Il movimento ondulatorio verso l’alto, sempre più intenso, fa sì che qualcosa di incandescente spicchi un salto verso il pavimento. Provo un’intensa emozione:sembra un incrocio tra un montone ed una capra, con riccioli di lana che gli ricoprono la testa. Il muso marrone e gli occhi fissi evocano una sfinge.

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